Considerazioni sul quesito della cittadinanza del referendum abrogativo
L’iniziativa sul referendum abrogativo per modificare la legge sulla concessione della cittadinanza è una iniziativa giovane, che è stata sostenuta molto sui social network, perché i canali tradizionali, appannaggio delle persone più agé di questo paese, forse tanta sollecitudine è passata inosservata. D’altronde perché dovrebbe interessare loro quello che percepiscono come “dare la cittadinanza agli stranieri”? Io penso di poter dire qualcosa al riguardo alla storia di questa iniziativa perché il 20 Novembre 2007 io ero lì a dare una lettera all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della Giornata nazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza presso Palazzo del Quirinale perché all’epoca non ero cittadino italiano, e rappresentavo la Rete G2 Seconde Generazioni. Sembra un’altra era. C’era Gianfranco Fini che dava degli “stronzi” agli alleati di governo. C’era Roberto Maroni che faceva spallucce insieme a Silvio Berlusconi, e dicevano che la riforma non faceva parte del programma del partito il Popolo della Libertà. Ricordo la proposta di legge Sarubbi-Granata tra PD e PDL. Ricordo le discussioni al Ministero della Solidarietà Sociale guidata da Paolo Ferrero che aveva convocato l’associazione. Ero lì quando il 13 Ottobre 2015, la Camera dei Deputati aveva approvato in prima lettura il disegno della riforma della legge sulla cittadinanza con ampia maggioranza. Ero lì quando in Senato nel 2017 grazie al PD, poco prima di Natale, questa proposta non è stata messa in calendario facendola naufragare. Ero lì quando si è elaborata una legge di iniziativa popolare con ASGI, Save the Children, Rete G2 Seconde Generazioni, e tante altre associazioni del terzo settore per 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Io sono ancora qui. Poco è cambiato. Avevo 17 anni nel 2007. Oggi ne ho 34. Cosa è cambiato? Ma soprattutto, la legge funziona o non funziona? Non è l’Italia il paese che concede di più la cittadinanza in Europa, no? Dov’è il problema?
La legge italiana sulla cittadinanza è stata nel tempo modificata da correttivi e prassi amministrative che l'hanno resa, almeno in parte, più inclusiva. Questo anche grazie al lavoro di Rete G2 – Seconde Generazioni, nata nel 2005, quando parlare di “seconde generazioni” o di figli di immigrati era ancora un tabù più che una novità. Nel 2006, i minori nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri erano circa 491.000 e, nonostante il loro legame con il Paese, venivano considerati a tutti gli effetti cittadini stranieri. Molti di loro, una volta compiuti i 18 anni, si sono trovati costretti a districarsi tra permessi di soggiorno per studio o lavoro, a dipendere da decreti attuativi e circolari ministeriali, vivendo una condizione paradossale: quella di sentirsi “stranieri in patria”. Io ero uno di loro. Nel 2006, questi “stranieri” nati o ricongiunti in Italia erano ormai maggiorenni. Vivevano, studiavano, lavoravano – affrontando ogni giorno le difficoltà legate all’assenza dello status civitatis, cioè della cittadinanza. Da questa realtà è nato il movimento G2 – Generazioni Seconde, fondato da figli dell’immigrazione. Alcuni di loro si sono visti rifiutare la cittadinanza per motivi di reddito; altri, pur avendone diritto, non la richiedono per paura di ricevere un diniego. Nonostante i salari siano fermi da oltre trent’anni (1), e nonostante la retorica di chi li definiva “bamboccioni”, molti di quei giovani stavano costruendo il proprio futuro. Oggi, però, la verità è che moltissimi italiani sotto i 35 anni non riescono a coprire il costo della vita con il solo reddito da lavoro, e sono costretti a ricorrere a strategie di sopravvivenza economica. Avere il reddito tra i criteri per ottenere diritti civili e politici è giusto e sensato ma solo in una economia dove effettivamente tu hai la possibilità di incrementarlo, altrimenti tale requisito diventa una forma di vessazione. Ancora più assurdo è pensare che questa situazione esista da vent’anni e che, invece di migliorare, sia addirittura peggiorata. Per quanto possa apparire idealistica ma ben radicata, G2 ha sempre pensato che la cittadinanza italiana per nati e cresciuti in Italia non debba essere una lotteria, una questione di fortuna, legata discrezionalmente al censo oppure mero oggetto di bieca contesa politica. Il riconoscimento della cittadinanza italiana funziona certamente per tutti coloro che sono discendenti di italiani per cui ci sono video su YouTube di cittadini brasiliani, americani e argentini e un enorme giro di affari con tanto di pubblicità e sconti per ottenere la cittadinanza italiana (2). Sono legittimati a farlo ed è la legge. Sfortunatamente in quelle comunità si nascondono spesso gruppi intolleranti sfacciatamente razzisti. E sul totale delle concessioni, quello ius sanguinis è quello che contribuisce di più sul totale. In Italia, le comunità che di stranieri cui viene concessa la cittadinanza di più sono le quella albanese, marocchina, rumena. Le comunità africane subsahariane nemmeno arrivano nella lista perché sono la minoranza della minoranza. E questo genera una discrepanza nell’immaginario. Quando si parla di stranieri si pensa sempre agli africani, intesi solo e soltanto come clandestini. Il Fascismo è stato sepolto ma l’immaginario che ha plasmato è rimasto ben vivo per quelli che sono nati, cresciuti e hanno subìto la propaganda razzista e colonialista dell’epoca, e gli africani rappresentano nella cultura di una parte di italiani l’alterità perfetta, non solo perché si vuole pensare che un africano sia più bisognoso, più indifeso e che quindi necessita di essere aiutato ovviamente dagli “italiani brava gente” ma una buona parte è convinta che i numeri di questi signori sul territorio coincidano con quelli di una invasione. Gli afrodiscendenti, in verità, non rappresentano strutturalmente la popolazione straniera in Italia ma vengono strumentalizzati per avanzare le istanze sociali proveniente dalla stessa, e oserei dire, sfruttati sfacciatamente da molte comunità straniere che preferiscono muovere le loro istanze senza metterci la faccia, strattonati dal tossico buonismo ipocrita della sinistra e la stupidità provinciale e a tratti razzista della destra. Questo poi ci porta a discutere dell’elemento culturale che accompagna l’idea di cittadinanza. Ora è diventata una locuzione desueta quella del “villaggio globale” e dove in termini apocalittici si è parlato della “fine della razza bianca”, che l’Italia sarà un melting pot come gli Stati Uniti e così via. Come ben sappiamo, le razze non esistono, purtroppo a tanti piace pensare di no, ma no, non esistono. Ed è vero che un territorio plasma le caratterische degli esseri umani e di tutti gli essere viventi che vi abitano. Le comunità umane, e l’Italia non fa eccezione, hanno sempre avuto contatti con il resto dell’umanità e l’elemento culturale ha dominato il senso di appartenenza di questi gruppi. Bisognerebbe recuperare questa visione ideale.
Una visione che ad oggi non funziona bene in Italia, è il motivo è molto semplice: ha a che fare in realtà con la demografia del paese. Per una bella fetta di italiani vecchia e canuta, non è una priorità del paese che tutti gli italiani abbiano gli stessi diritti e doveri. Dicono: tu non sei italiano. Sei straniero. Perché la cittadinanza è percepita in categorie razziali ottocentesche. Basta pensare a Bertolaso quando parla di razza italica, oppure Attilio Fontana quando parla di razza bianca (3). In un paese dove il pelo bianco ha un enorme peso politico, sociale, contrattuale, economico e pensionistico, la loro idea di nazione è vincente. Ed è la sola. Se ne sono impadronita ipotecando il futuro. Tutto ciò che è o non è italiano si misura con quello che dicono loro. La nazione, un termine di cui si è appropriato la destra, è un’idea anni Trenta. Il Fascismo si è proposto come compimento del sogno risorgimentale, e ci ha dato il solo modo che abbiamo di essere Nazione, che alcuni ancora oggi carezzano. Il culto acefalo della romanità e il militarismo imperialista che serpeggiava in Europa in quegli anni (e sicuramente nei 150 anni prima). La Resistenza ci ha liberato dal Fascismo, è stato anch’esso un moto nazionalistico, ma per la sinistra la Nazione è un’idea negativa, che sposa una sorta di iperuranio non ben definito, transnazionale, sempre giusta, un’accozzaglia priva di forma nella quale l’Italia è una comunità senza nazione, senza un orizzonte ideale e che per questo deve imitarlo da nazioni occidentali più progredite o facendosi guidare dall’Europa. La destra ha un’idea di nazione vincente ma legato ad un passato astorico in cui si crogiola in modo caricaturale e puramente masturbatorio. Bisogna tornare a vedere la Nazione come un orizzonte ideale alternativo alla destra e alla sinistra. Dove la Nazione è prima di tutto cultura, ossia quello che un popolo condivide. E la prima cosa è la lingua. L’idea proposta da Vannacci, Bertolaso, Fontana (e tanti altri come loro) semplicemente è fuori posto, inadeguata e non all’altezza delle sfide che la nostra Nazione deve affrontare ed è una idea di Italia che morirà con loro senza tuttavia lasciare nulla. Non è un’idea feconda. Non c’è nulla di esaltante e per cui vale la pena davvero spendersi e mettere le proprie migliori energie e quelle di altri. È un’idea stanca senza proiezione. È un’idea vecchia perché non funziona, perché dietro c’è potere e difesa delle rendite di posizione. Perché, d’altronde, devo riconoscere come cittadino qualcuno che potrebbe competere con mio figlio o mio nipote? Perché devo vedere i figli della mia badante poter avere un lavoro nella PA e magari essere più benestanti dei miei figli? Vi diranno che con l’immigrazione incontrollata è caduto l’Impero Romano, facendo una gran confusione, senza nemmeno pensare che la loro dissonanza cognitiva indica in modo non ben preciso un certo declino. Che importanza ha se c'è un'intera economia legata a persone nelle Americhe che vantano un trisavolo italiano e spendono molti soldi per ottenere il passaporto italiano, votare e muoversi liberamente in Italia? Cosa importa anche se in termini assoluti, le richieste e i riconoscimenti per ius sanguinis superano di gran lunga le concessioni per naturalizzazione? Il problema è la visione razzista e non culturale. Chi nasce e cresce in Italia non è un parassita. Come d’altronde non lo sono i genitori. Non è una colpa nascere in una famiglia dove i genitori sognano un futuro migliore per sé stessi e per le generazioni future. In Italia è molto forte un’idea anni Trenta del paese per cui collettivamente il 1950 ci sembra più vicino del 2050. È semplicemente tempo di levare un po’ di naftalina e assumere di nuovo quello spirito risorgimentale, senza disturbare a sproposito (decontestualizzandolo) Giulio Cesare ma pensare all’Italia fatta da Cristina Trivulzio di Belgiojoso, i fratelli Bandiera, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Carlo Cattaneo, Camillo Benso Conte di Cavour, Alessandro de Medici, San Benedetto da San Fratello, Sant’Agostino, Apuleio, Nicola Porpora, Papa Leone XIII, Luisa Spagnoli, Giorgio Marincola, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Vanessa Ferrari, Fiona May, Jannik Sinner, Jasmine Paolini, Mario Balottelli, Marcell Jacobs, e tanti altri. Quindi, in definitiva, cosa ci rende italiani? Si è italiani quando si partecipa nella vita sociale, culturale e nel benessere del paese. Si è italiani nel voler essere un’Italia migliore che trascende gli errori dei padri e delle madri, e non una ceca adorazione delle ceneri. La cultura è tutto ciò che un popolo condivide e tramanda. La cultura è la risultante di quanto tutte le generazioni che ci hanno preceduto hanno messo al centro. Si è italiani quando non si pensa stupidamente solo al prosciutto o alla dieta mediterranea, ma quando si pensa che l’Italia sia insuperabile nell’aerospazio, nella musica, nell’istruzione, nella ricerca, nella solidarietà, nella giustizia, nel rispondere alle proprie azioni, nell’etica del lavoro, ponendosi sempre obiettivi più alti e correggendo dove ci sono errori. E per questo che bisogna chiamare a sé quanti più hanno questi valori, perché in questo vediamo gli italiani, ossia coloro che usano le esperienze condivise da altri italiani per essere all’altezza di questi obiettivi, di questi valori, di questi sogni. Il primo articolo della Costituzione ci aiuta. Non vuol dire come dice la vulgata degli ultimi quarant’anni che ognuno ha diritto al posto di lavoro. L’Italia era prima una monarchia dove la tua posizione sociale era determinata dal censo. Dire che la Repubblica è fondata sul lavoro significa che è il lavoro di ognuno a determinare la tua posizione nella società(4). Ed è un bello orizzonte che sono contento di poter di nuovo ammirare con questo referendum.
Un referendum che tuttavia offre molto meno rispetto alle moltissime proposte che negli ultimi 15 anni sono state avanzate. Inoltre se hai 30 anni, il 70% della popolazione italiana è più grande te (percentuale che aumenta tanto più giovane è il campione) e una buona parte ha idee vecchie e stagnanti, e da queste persone dipendono figli e nipoti che difficilmente voteranno diversamente dal genitore, anche perché il genitore è molto più ricco del figlio, e non perché abbia semplicemente vissuto ma solo perché oggi è difficile se non impossibile essere più ricchi dei tuoi genitori con il solo reddito da lavoro e questa “sudditanza” o “cultura della dipendenza” ha purtroppo distorto il processo democratico, e reso categorie di età più grandi e i loro valori dominanti, influenti, in altre parole egemoni. Il paradosso per cui si tassa di più l'ormai magro reddito da lavoro che la proprietà ha minato financo privare di autonomia e deresponsabilizzando molti adulti. Se si aggiunge a questo il fatto che i giovani adulti rimangono una assoluta minoranza nel paese, è molto difficile che un gruppo ben nutrito possa votare in modo contrario ad una società di vecchi e i suoi interessi, anche solo per controbilanciarli, perché sono privi delle risorse e i numeri per poter sopportare le scelte che sono contrarie agli interessi della maggioranza. Bisogna sperare che qualcuno nei piani alti abbia la coscienza infelice di hegeliana memoria e smetta di credere ai complotti e al piano Kalergi e che qualcuno ai piani bassi abbassi lo Spritz e usi i privilegi di un paese ricco quale l’Italia per smuovere le acque.
Insomma, non considero il quesito sulla cittadinanza di questo referendum un progresso, semmai marginalmente migliorativo la riduzione del periodo di residenza per acquisire la cittadinanza italiana, attualmente fissato a 10 anni per gli stranieri extra UE, tuttavia, l'iniziativa di questi italiani che in meno di 30 giorni hanno raccolto firme e hanno spinto la nostra attenzione su questa questione da troppo tempo aperta, ci dicono che c’è un’altra Italia che pretende il suo posto nella Storia. Non ce n’è una sola di Italia. Di per sé questa è una bella notizia. Forse così riusciremo ad avere nuovamente disposizione del futuro.
BIBLIOGRAFIA
(1) Prendete e incazzatevi tuttiIn Italia gli stipendi sono bassi, ma nessuno se ne occupa
https://www.linkiesta.it/2025/03/stipendi-bassi-italia-sindacati/
(2) Cittadinanza vendesi - PresaDiretta 09/03/2025
https://www.youtube.com/watch?v=_oYTK1F03Gg
(3) Lombardia, Fontana: troppi immigrati, razza bianca a rischio. Poi rettifica: lapsus
https://www.ilsole24ore.com/art/lombardia-fontana-troppi-immigrati-razza-bianca-rischio-poi-rettifica-lapsus-AEjiOwiD?refresh_ce=1
(4) Così è nato il nostro testo, accettato anche da altri colleghi di gruppi differenti dal nostro, testo che dice: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
In questa formulazione l'espressione democratica vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v'è democrazia. Ma in questa stessa espressione la dizione «fondata sul lavoro» vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere.
Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d'ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune. L'espressione «fondata sul lavoro» segna quindi l'impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione, come si può facilmente provare rifacendosi anche all'attuale formulazione della materia degli articoli 6 e 7 e più ancora degli articoli 30-44, cioè di quegli articoli che costituiscono il Titolo terzo della parte prima del nostro progetto.
https://www.nascitacostituzione.it/01principi/001/index.htm