Considerazioni sul caso riguardante Israele e Palestina di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia

 

Julia Sebutinde, Giudice e Vice-Presidente della Corte Internazionale di Giustizia

L’opinione dissenziente del giudice Sebutinde nel caso Sudafrica c. Israele (1) offre un esame attento e rigoroso, in particolare per quanto riguarda il trattamento delle dimensioni giuridiche del conflitto. Con il massimo rispetto, tuttavia, alcuni aspetti del ragionamento meritano una considerazione più approfondita. In particolare, la discussione sul contesto storico sembra sottovalutare la complessità dell’equilibrio di potere tra Israele e Palestina e trascurare il ruolo della cooperazione e della responsabilità internazionale. La giudice Julia Sebutinde, giurista ugandese, è membro della Corte internazionale di giustizia (CIG) dal marzo 2012 ed è attualmente al suo secondo mandato. Ha il primato di essere la prima donna africana nominata alla Corte, con sede all’Aia. Nel febbraio 2024 è stata eletta Vicepresidente della CIG. La giudice Sebutinde fa parte dei membri della Corte che stanno giudicando il procedimento avviato dal Sudafrica contro Israele in base alla Convenzione sul genocidio. Gli stessi giudici hanno deliberato sulla richiesta di misure provvisorie volte a proteggere i palestinesi a Gaza nel gennaio 2024. In precedenza, nel gennaio 2024, la Corte internazionale di giustizia (la Corte) ha emesso un’ordinanza quasi unanime (2) nel caso Sudafrica c. Israele, indicando misure provvisorie ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948). Dopo aver ascoltato le arringhe orali del Sudafrica e di Israele, rispettivamente l’11 e il 12 gennaio 2024, la Corte ha stabilito di avere una competenza prima facie sulla controversia e ha ordinato sei misure provvisorie. Tra queste: che Israele adotti tutte le misure in suo potere per prevenire la commissione di atti vietati dall’articolo II(a)–(d) della Convenzione; che garantisca l’astensione immediata delle sue forze armate dal commettere tali atti; che adotti misure efficaci per prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove relative alle accuse di genocidio; e che riferisca alla Corte entro un mese sui passi compiuti per conformarsi all’ordinanza. La giudice Sebutinde si è distinta in particolare per essere stata l’unica voce dissenziente in quella decisione. Mentre quindici dei diciassette giudici hanno votato a favore di tutte e sei le misure provvisorie e il giudice israeliano ne ha sostenute due, la giudice Sebutinde ha votato contro l’intero pacchetto di misure proposte. In questo commento cerco di esaminare l’opinione dissenziente espressa dalla giudice Julia Sebutinde in relazione alla richiesta di indicazione di misure provvisorie presentata dal Sudafrica contro Israele ai sensi della Convenzione sul genocidio, riguardo alla situazione nella Striscia di Gaza. È ormai trascorso più di un anno da quando la Corte ha emesso la sua ordinanza il 26 gennaio 2024, eppure la giudice Sebutinde ha costantemente mantenuto la posizione delineata nel suo dissenso. Pur rappresentando una visione minoritaria, la sua opinione conserva un peso particolare e rimane di grande rilevanza per riflettere e valutare gli sviluppi in corso. Per questa ragione, il suo dissenso costituisce un utile punto di partenza per l’analisi presente e per articolare alcune considerazioni personali su questa complessa questione. Questo testo non può, ovviamente, essere considerato un trattamento esaustivo della materia; rappresenta piuttosto un tentativo di registrare alcune riflessioni, di chiarire la tragedia che abbiamo davanti secondo la mia comprensione e di contribuire a una discussione critica sul ruolo della Corte. Ho sempre apprezzato le opinioni dissenzienti dei giudici per il rigore intellettuale che spesso offrono e per il modo in cui illuminano prospettive alternative. Leggerle e riflettervi può essere tanto stimolante quanto impegnativo. Tuttavia, pur rispettando il diritto e la responsabilità dei giudici di articolare il dissenso, ho trovato il ragionamento della giudice Sebutinde profondamente viziato nelle sue fondamenta filosofiche, e ritengo importante spiegare il perché. La mia speranza non è semplicemente quella di esprimere disaccordo, ma di incoraggiare un coinvolgimento critico su queste questioni. La posta in gioco — sia giuridica che umana — è troppo alta per permettere silenzio o indifferenza. È in questo spirito che offro queste riflessioni, come stimolo alla riflessione, al dialogo e all’esame continuo. Cominciamo dalla base stessa: perché non esistono due Stati? In linea di principio, il Piano di partizione delle Nazioni Unite per la Palestina, adottato nel 1947 con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale (3), prevedeva proprio tale esito. Il piano disponeva la creazione di due Stati indipendenti: uno ebraico, su circa il 55 per cento del territorio del Mandato britannico di Palestina, e uno arabo-palestinese, su circa il 45 per cento. Gerusalemme e Betlemme, data la loro importanza religiosa, sarebbero state poste sotto un regime internazionale speciale amministrato dalle Nazioni Unite. La leadership ebraica accettò il piano di partizione e, il 14 maggio 1948, proclamò la nascita dello Stato di Israele. Riconoscimenti internazionali seguirono immediatamente, a partire da Stati Uniti e Unione Sovietica, che conferirono legittimità a Israele indipendentemente dall’opposizione degli Stati arabi vicini. Al contrario, la leadership araba e palestinese respinse il piano di partizione, sostenendo che fosse iniquo nell’assegnare una quota sproporzionata di territorio alla popolazione ebraica, che all’epoca costituiva una minoranza. Di conseguenza, non venne proclamato alcuno Stato palestinese e la risposta scelta fu quella della resistenza e del conflitto armato. Dal punto di vista storico, proclamare uno Stato palestinese nel 1947–48 sarebbe probabilmente stato vantaggioso per i palestinesi, almeno sul piano politico e giuridico. Tuttavia, ciò non avvenne, e diversi fattori contribuiscono a spiegarne le ragioni. La leadership palestinese e araba respinse il piano di partizione delle Nazioni Unite (4), che considerava ingiusto (5). All’epoca, la popolazione ebraica costituiva circa un terzo degli abitanti, eppure il piano assegnava a Israele più della metà del territorio. Accettare tale divisione equivaleva a legittimare la creazione dello Stato ebraico, cosa che non erano disposti a fare (6). Accanto a questo rifiuto, vi era anche la convinzione che la lotta armata sarebbe stata più efficace. Molti leader ritenevano che la guerra, sostenuta dagli eserciti arabi vicini, avrebbe potuto impedire del tutto la nascita di Israele o almeno ridurne drasticamente i confini. Inoltre, la politica palestinese mancava di coesione. Le rivalità tra famiglie e fazioni indebolivano ogni fronte comune, mentre i governi arabi vicini spesso prendevano decisioni che prevalevano sugli interessi locali. Se i palestinesi avessero dichiarato il proprio Stato, l’esito sarebbe potuto essere molto diverso. Avrebbero ottenuto un fondamento giuridico internazionale, con il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite di uno Stato di Palestina accanto a Israele. Questo riconoscimento avrebbe permesso loro di rivendicare con maggiore legittimità il territorio assegnato dal piano di partizione, anche se fosse comunque seguito un conflitto. Dopo il 1948, quando Israele prevalse militarmente ed estese il proprio controllo su ulteriori territori, sarebbe stato molto più difficile negare la legittimità di uno Stato palestinese già proclamato. In realtà, dopo la guerra del 1948, i territori assegnati allo Stato palestinese non passarono sotto autorità palestinese ma furono controllati dall’Egitto a Gaza e dalla Giordania in Cisgiordania (7). Di conseguenza, i palestinesi rimasero senza uno Stato proprio, una condizione che perdura ancora oggi. Col senno di poi, dichiarare immediatamente uno Stato palestinese avrebbe dato loro una posizione politica e diplomatica più forte. All’epoca, però, prevalse la logica del rifiuto e della guerra, incoraggiata e sostenuta dai governi arabi circostanti. Entrambe le parti, in realtà, sottovalutarono l’impatto della partizione e della guerra che seguì. Il movimento sionista mirava certamente a stabilire uno Stato ebraico, ma molti israeliani non si aspettavano di vincere così rapidamente la guerra del 1948 né di espandere i propri confini oltre quelli assegnati dalle Nazioni Unite (8). Determinazione, efficace organizzazione militare e l’afflusso di immigrati durante e dopo la Seconda guerra mondiale permisero a Israele di consolidare uno Stato forte in pochissimo tempo. I palestinesi, invece, ritenevano che la resistenza — sostenuta dagli eserciti arabi vicini — avrebbe garantito loro una posizione negoziale migliore, ma non prevedevano di perdere la maggior parte del territorio assegnato e di essere costretti alla diaspora. La frammentazione politica e militare, unita alla sottovalutazione della capacità organizzativa e militare delle forze ebraiche, portò a una sconfitta storica con conseguenze di lunga durata. Fin dall’inizio, la disparità di potere e di organizzazione istituzionale tra le parti in conflitto fu marcata e decisiva. Il movimento sionista e la comunità ebraica nella Palestina mandataria avevano sviluppato un’infrastruttura politica e militare relativamente avanzata (9). Organizzazioni paramilitari come l’Haganah, l’Irgun e il Lehi operavano con notevole efficacia ed erano in grado di coordinare la strategia militare e politica su vasta scala (10). Questa coesione interna era rafforzata da un ampio sostegno internazionale, sia politico che finanziario, che si intensificò dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto. Tali condizioni facilitarono la nascita dello Stato di Israele nel 1948 e gli permisero di soddisfare i criteri classici di statualità, come definiti nell’articolo 1 della Convenzione di Montevideo sui diritti e i doveri degli Stati (1933): un territorio definito, una popolazione permanente, un governo effettivo e la capacità di intrattenere relazioni con altri Stati. Il successivo riconoscimento di Israele da parte di grandi potenze come Stati Uniti e Unione Sovietica ne confermò l’ingresso nell’ordine giuridico internazionale come Stato sovrano. I palestinesi, al contrario, affrontavano svantaggi strutturali che impedivano la realizzazione del loro diritto alla statualità e all’autodeterminazione. Politicamente e militarmente frammentati, non disponevano di un governo unificato né di forze armate organizzate in grado di esercitare un controllo effettivo sul territorio (11). La loro capacità di affermare sovranità era ulteriormente limitata dall’influenza di attori esterni, comprese le Nazioni Unite e le ex potenze coloniali, le cui decisioni operavano spesso a beneficio di Israele. Il fallimento degli Stati arabi nel coordinare una strategia coerente per la statualità palestinese indebolì ulteriormente la loro posizione. Le conseguenze di questa asimmetria furono profonde. Durante il conflitto del 1948, la popolazione palestinese subì sfollamenti di massa e la perdita diffusa di terre — eventi collettivamente indicati come la Nakba (12). Questo esodo produsse una delle più grandi e prolungate crisi di rifugiati del ventesimo secolo, sollevando questioni tuttora irrisolte nel diritto internazionale riguardo ai diritti dei rifugiati e delle persone sfollate, compreso il diritto al ritorno, come sancito dalla Risoluzione 194 (III) dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1948. Nei decenni successivi, l’assenza di un apparato statale palestinese, unita alla continua occupazione e all’espansione degli insediamenti (13), compromise gravemente la realizzazione effettiva del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Questo diritto, definito dalla Corte internazionale di giustizia come un obbligo erga omnes nel suo Parere consultivo sulla Namibia (1971) e riaffermato nel Parere consultivo sulle conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati (2004), è rimasto centrale nel dibattito giuridico internazionale sullo status della Palestina. Così, mentre Israele ha invocato con successo il quadro del diritto internazionale per consolidare la propria sovranità e ottenere riconoscimento, i palestinesi sono stati di fatto relegati in un contesto giuridico e politico costruito da potenze esterne, con mezzi assai limitati per tutelare i propri interessi. Lo squilibrio strutturale tra le parti non solo ha determinato l’esito iniziale della guerra del 1948, ma continua a definire il discorso giuridico sull’occupazione, la statualità e l’autodeterminazione nella regione ancora oggi. A mio avviso, tale considerazione mette direttamente in discussione il ragionamento avanzato dalla giudice Sebutinde. Nel suo dissenso, ella sembra aver ignorato lo squilibrio di potere storicamente evidente tra Israele e i palestinesi, ridimensionato la legittimità delle aspirazioni del popolo palestinese all’autodeterminazione e inquadrato il procedimento come il mero prodotto del fallimento, della riluttanza o dell’incapacità degli Stati di risolvere una controversia politica (14). Tuttavia, la sua analisi non ha identificato quali Stati sarebbero stati responsabili di tale inerzia, né ha spiegato come questo fallimento politico potesse annullare la competenza della Corte o l’applicabilità della Convenzione sul genocidio. Ancor più sorprendentemente, la giudice Sebutinde ha descritto la richiesta presentata dal Sudafrica come poco più di un artificioso tentativo di forzare la controversia entro il contesto della Convenzione sul genocidio, definendo lo sforzo metaforicamente come “la scarpetta di vetro di Cenerentola” (15). Un linguaggio del genere solleva preoccupazioni riguardo agli standard di ragionamento giudiziario che ci si aspetta da un membro del principale organo giudiziario delle Nazioni Unite. Esso suggerisce un impegno superficiale con la gravità delle accuse e una riluttanza a collocare il caso nel più ampio quadro del diritto internazionale. La Corte internazionale di giustizia ha costantemente affermato che anche le controversie con forti dimensioni politiche non privano la Corte della sua funzione giudiziaria (16). Come la Corte ha osservato nel caso Nicaragua c. Stati Uniti, la presenza di aspetti politici non esonera la Corte dal dovere di decidere le cause “applicando i principi e le regole del diritto internazionale (17).” Inoltre, la giudice Sebutinde ha sostenuto che il rifiuto del Piano di partizione del 1947 da parte di alcuni leader arabi, insieme allo scoppio delle ostilità nel 1948, avesse ostacolato il raggiungimento dell’obiettivo — apparentemente lodevole — di istituire due Stati per due popoli. Questo ragionamento, tuttavia, trascura i termini sostanziali del Piano di partizione stesso, formulato dalle potenze internazionali prevalenti dell’epoca senza una genuina negoziazione o un accordo tra i due popoli interessati, e che, fin dall’inizio, favoriva strutturalmente la creazione di Israele. L’integrità giudiziaria richiede che i giudici si confrontino pienamente con le pretese giuridiche e con il materiale probatorio presentato, indipendentemente dalle sensibilità politiche coinvolte. Caratterizzando il procedimento in termini liquidatori, la giudice Sebutinde ha rischiato di minare l’apparenza di imparzialità e il più ampio ruolo della Corte nel tutelare lo stato di diritto nelle relazioni internazionali. Israele gode oggi di un ampio sostegno da parte delle potenze occidentali; tuttavia, è notevole che tra i suoi sostenitori più vocali in alcuni paesi occidentali vi siano movimenti politici di estrema destra. Si tratta, in molti casi, dei diretti discendenti ideologici di coloro che, solo un secolo fa, propagavano le dottrine antisemite culminate nel genocidio degli ebrei europei. Questo apparente paradosso — ossia l’allineamento tra lo Stato di Israele e attori politici storicamente associati all’ostilità verso le comunità ebraiche (18) — ha attirato notevole attenzione accademica e politica (19). Questa convergenza di interessi sembra poggiare su due fattori principali. In primo luogo, la persistenza dell’islamofobia come ideologia unificante ha creato una piattaforma condivisa tra Israele e segmenti dell’estrema destra europea. In secondo luogo, il perdurante senso di colpa collettivo in Europa per l’Olocausto è stato spesso trasposto dalla responsabilità verso i cittadini ebrei — che furono le vittime dirette della persecuzione e del genocidio — a un sostegno incondizionato allo Stato di Israele, sebbene questo non esistesse al momento delle atrocità. Dal punto di vista sia storico che giuridico, emerge una profonda ironia: i discendenti di un popolo sottoposto a una campagna genocida senza precedenti si trovano ora allineati, almeno politicamente, con forze storicamente associate alle stesse ideologie che avevano reso possibile o giustificato tale persecuzione. Questa alleanza contemporanea — spesso articolata attraverso la retorica della lotta al “terrorismo” o della risposta a una presunta “minaccia araba” — non solo distorce la responsabilità storica, ma solleva anche gravi questioni etiche e giuridiche riguardo alla strumentalizzazione dell’Olocausto nel discorso e nel processo decisionale geopolitico odierno. Sorge dunque la domanda: perché l’Olocausto è stato elevato a una simile centralità nella coscienza giuridica e morale globale? Come ha osservato Aimé Césaire, ciò che l’Europa ha storicamente trovato intollerabile nei crimini di Hitler non era tanto il crimine contro l’umanità in sé, né l’umiliazione degli esseri umani in quanto tali, ma piuttosto il fatto che tali atrocità fossero inflitte agli europei, o (secondo il razzismo pseudoscientifico dell’epoca, ancora presente in alcuni discorsi odierni) agli uomini bianchi. In questa lettura, le atrocità di Hitler rappresentavano la trasposizione in Europa di metodi di dominio e violenza che fino ad allora erano stati applicati quasi esclusivamente contro popoli colonizzati (20) — come gli arabi in Algeria, i sudditi dell’India britannica e le popolazioni dell’Africa subsahariana. Questa interpretazione deve essere collocata in un contesto storico-giuridico più ampio. Per quasi quattro secoli, le potenze occidentali hanno perseguito l’espansione globale, costruendo imperi che estendevano le rivalità intereuropee ad altri continenti. Tali imprese implicavano spesso pratiche sistematiche di conquista, schiavitù e sfruttamento, che portavano alla distruzione o alla sottomissione di intere popolazioni e all’appropriazione di interi territori. In molti casi, tali appropriazioni non si limitavano al controllo diretto da parte degli Stati, ma coinvolgevano anche imprese commerciali private, con compagnie e società di commercio che acquisivano vasti territori ed esercitavano poteri quasi sovrani sulle popolazioni indigene. Queste dinamiche, radicate nell’espansione e nella competizione imperialista, contribuirono infine all’escalation delle rivalità tribali europee che culminarono in due guerre mondiali combattute su scala planetaria. Queste pratiche, pur ampiamente documentate, non furono mai oggetto di un analogo giudizio legale nell’ambito del diritto internazionale. Al contrario, l’Olocausto — pur essendo senza dubbio un crimine di portata e gravità senza precedenti — venne elevato allo status di atrocità paradigmatica, plasmando lo sviluppo successivo del diritto penale internazionale, compreso il divieto di genocidio e dei crimini contro l’umanità. Su questo sfondo, l’elevazione singolare dell’Olocausto a tragedia definitoria della storia umana moderna — mentre le atrocità del colonialismo e della dominazione imperiale rimangono relativamente poco riconosciute nel discorso giuridico e politico — appare, dal punto di vista di gran parte del Sud globale, profondamente problematica. Inoltre, la designazione di Hamas come “organizzazione terroristica” è, a mio avviso, una caratterizzazione parziale e contestualmente incompleta di un movimento percepito da molti all’interno della Striscia di Gaza come una resistenza armata contro l’occupazione. Ciò non significa scusare o minimizzare i riprovevoli attacchi in cui civili israeliani sono stati brutalmente uccisi, violati e assassinati, che devono essere condannati senza ambiguità. Tuttavia, rimane il fatto che Hamas è considerato da una parte significativa della popolazione palestinese come un movimento di resistenza contro un oppressore radicato. Allo stesso tempo, lo statuto fondativo di Hamas dichiara esplicitamente come obiettivo primario la distruzione dello Stato di Israele e l’affermazione di una sovranità esclusiva sull’intero territorio della Palestina storica. Entrambe le parti in conflitto invocano la propria eredità ideologica e spirituale come giustificazione delle rivendicazioni sulla terra e, in alcuni casi, per l’esclusione o l’eliminazione dell’altro. Da questo punto di vista, il ricorso di Hamas allo zelo religioso non è del tutto distinto da quello dello Stato di Israele, che, pur proclamandosi democratico e laico, è stato fondato esplicitamente come patria e rifugio per il popolo ebraico (21). La Dichiarazione d’indipendenza di Israele afferma che “la Terra di Israele è stata la culla del popolo ebraico. Qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica.” Il quadro costituzionale israeliano, in particolare la sua Legge fondamentale, sancisce inoltre che Israele è lo Stato-nazione del popolo ebraico, all’interno del quale il diritto all’autodeterminazione appartiene esclusivamente a quel popolo. Se tali disposizioni riflettono la realtà politica dall’istituzione di Israele, esse restano problematiche — meno per ciò che affermano che per ciò che omettono, ossia una chiara articolazione dei principi democratici e della garanzia di uguaglianza per tutti gli abitanti. Lo statuto di Hamas, da parte sua, non aspira a valori liberali; incarna piuttosto una visione patriarcale e rigida della società, lontana dagli ideali democratici, anche se Israele si presenta come comparativamente più liberale. Detto questo, l’uccisione indiscriminata di uomini, donne e bambini è tanto indecente quanto sconvolgente. Il diritto internazionale umanitario, come codificato nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei loro Protocolli aggiuntivi, impone inequivocabilmente la protezione dei civili nei conflitti armati. Il principio di proporzionalità vieta gli attacchi in cui i danni previsti ai civili sarebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto atteso. È precisamente a questo punto che l’invocazione da parte di Israele del diritto inerente di autodifesa ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite appare sempre più fragile, dato il livello di distruzione e di perdita di vite civili a Gaza. La devastazione inflitta non può essere ragionevolmente attribuita a vittime collaterali di una guerra convenzionale; riflette piuttosto un livello di violenza enormemente sproporzionato e, nella sua portata, indicibile. Per quanto riguarda le dichiarazioni di alti funzionari israeliani citate dal Sudafrica come contenenti retorica genocidaria, dissento rispettosamente dall’affermazione della giudice Sebutinde secondo cui tali osservazioni non sarebbero state considerate nel loro giusto e pieno contesto. Un esame accurato indica che il Sudafrica non ha né citato erroneamente né frainteso sostanzialmente tali dichiarazioni. A meno di un anno dalle misure provvisorie della Corte, il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha descritto apertamente la Striscia di Gaza come una potenziale “occasione immobiliare,” indicando colloqui in corso con gli Stati Uniti riguardo alla divisione e alla ricostruzione postbellica del territorio (22) — piani che richiamano appropriazioni coloniali e già condannati dalla comunità internazionale. In un evento pubblico ha dichiarato: “Abbiamo completato la fase di demolizione. Ora dobbiamo costruire,” affermando inoltre che “un piano d’affari è sul tavolo del presidente Trump.” Nel febbraio 2025, il presidente statunitense Donald Trump ha addirittura suggerito che gli Stati Uniti potessero assumere “una posizione di proprietà a lungo termine” su Gaza, presentando tramite un video generato da intelligenza artificiale una visione di trasformazione del territorio nella “Riviera del Medio Oriente” — un progetto fondato sullo sfollamento di massa dei palestinesi (23). Altri ministri israeliani hanno apertamente invocato misure equivalenti a trasferimenti forzati, in violazione dell’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, tra cui appelli a incoraggiare l’emigrazione palestinese, interrompere gli aiuti umanitari e proseguire le operazioni fino alla distruzione di Hamas, a prescindere dalle sofferenze civili. La giudice Sebutinde ha ragione nell’osservare che il presente caso è complicato dal fatto che Hamas, in quanto uno dei belligeranti, non è parte in questo procedimento (24). Potrebbe dunque sembrare irrealistico imporre vincoli giuridici a Israele mentre Hamas rimane al di fuori della giurisdizione della Corte. Tuttavia, questo ragionamento trascura il modo incoerente in cui Hamas viene presentato: a volte descritto come un’organizzazione terroristica operante come un piccolo movimento guerrigliero, altre volte trattato come se fosse un’entità sovrana in guerra con Israele. Questo duplice inquadramento serve a giustificare la vasta campagna militare di Israele. Quando Hamas viene descritto come simile a uno Stato, Israele legittima la sua condotta bellica; quando Hamas viene ridotto a un semplice gruppo armato, l’enorme bilancio civile delle operazioni israeliane viene liquidato come danno collaterale nella lotta al terrorismo. Questa ambiguità, unita alla persistente asimmetria di potere, rischia di offuscare la lotta di fondo dei palestinesi per l’autodeterminazione. La Risoluzione 1514 (XV) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite — la Dichiarazione sull’indipendenza dei paesi e dei popoli coloniali — afferma che la negazione dell’autodeterminazione costituisce una violazione del diritto internazionale. Tuttavia, la traiettoria attuale porta, nella migliore delle ipotesi, a un’ulteriore spoliazione, e nella peggiore, alla distruzione come contemplata dall’articolo II della Convenzione sul genocidio del 1948. Israele oggi non è più l’entità fragile che era alla sua nascita. Comanda un potere militare, politico e diplomatico schiacciante. Ciò che era incerto nel 1947 — quando molti osservatori, compresi gli stessi palestinesi, ritenevano che l’equilibrio di potere pendesse altrove — si è da allora spostato in modo decisivo. Attraverso determinazione politica (25) e forza militare (26), Israele ha assicurato sia la statualità sia il controllo territoriale, e la sua esistenza è ora sostenuta come un fait accompli. Dal punto di vista giurisprudenziale (27), questa traiettoria può essere compresa in due registri distinti ma complementari. In primo luogo, come osservava Hans Kelsen, una volta che un nuovo ordine giuridico si è stabilito ed è stato riconosciuto, la Grundnorm (norma fondamentale) si adatta a convalidarlo, indipendentemente dalle irregolarità della sua origine (28). Sono l’efficacia e la consolidazione a conferire in ultima analisi legalità. Da questa prospettiva, la statualità di Israele, una volta contestata, è oggi una realtà giuridica radicata nell’ordine internazionale. Al contrario, la teoria dello stato di eccezione di Carl Schmitt rivela un’altra dimensione: la nascita di Israele non fu principalmente il risultato di un processo legale consensuale o di un piano di spartizione pienamente attuato, bensì di una sospensione dell’ordine normativo in cui la sovranità venne affermata con la forza e successivamente normalizzata dal riconoscimento internazionale. Per Schmitt, l’atto decisivo—l’affermazione della sovranità in un momento di crisi—precede e plasma la legalità stessa (29). Queste due prospettive, prese insieme, evidenziano la profonda asimmetria in gioco. Il positivismo di Kelsen spiega come l’esistenza di Israele sia stata giuridicamente consolidata, mentre il decisionismo di Schmitt sottolinea come il suo fondamento sia sorto da un’affermazione di forza al di fuori della legge. Il caso palestinese, al contrario, mette in luce i limiti di entrambi i quadri teorici: mancando un controllo effettivo sul territorio, i palestinesi non hanno potuto generare le condizioni per un riconoscimento kelseniano, mentre la comunità internazionale non ha concesso loro un’“eccezione” schmittiana a proprio favore. Così, mentre il diritto internazionale afferma l’autodeterminazione come un diritto inalienabile, la formazione storica degli Stati—incluso Israele—dimostra che il diritto al tempo stesso riflette e legittima il potere. Resta il paradosso che la legalità nel diritto internazionale spesso emerga ex post facto, codificando ciò che la forza ha già realizzato. Per i palestinesi, questo divario tra le promesse del diritto e la sua prassi continua a definire la loro lotta. La domanda pressante, quindi, è se rimanga qualche autentica speranza di coesistenza pacifica. La giudice Sebutinde, pur avendo diritto al suo dissenso, avrebbe potuto adottare un approccio più costruttivo, riconoscendo il grave squilibrio di potere e, almeno, affermando la legittima aspirazione dei palestinesi alla statualità. Così facendo non solo avrebbe rafforzato l’autorità morale della Corte, ma avrebbe anche riaffermato la centralità del diritto dei popoli all’autodeterminazione, del principio di eguaglianza tra Stati e del divieto assoluto di genocidio—principi fondanti del diritto internazionale. In questa luce, il dissenso riflette non solo una divergenza di opinione giuridica, ma anche una posizione metodologica in contrasto con gli standard di deliberazione giudiziaria che tutelano la legittimità stessa della Corte. Secondo recenti rapporti, la giudice Julia Sebutinde ha pubblicamente riconosciuto che la sua posizione è stata motivata da convinzioni religiose. Avrebbe dichiarato di aver agito perché credeva che “il Signore” si aspettasse da lei che “stesse dalla parte di Israele.” La giudice Sebutinde ha inoltre affermato che, a suo avviso, gli eventi attuali in Medio Oriente segnalano l’avvicinarsi della “Fine dei Tempi”, esprimendo la convinzione che “il tempo stia per scadere” e che desiderasse essere “dalla parte giusta della storia (30).” Queste dichiarazioni, pubblicate dal quotidiano ugandese The Daily Monitor, hanno suscitato rinnovata preoccupazione nella comunità giuridica internazionale. Esse sollevano questioni fondamentali riguardo l’imparzialità giudiziaria, in particolare le implicazioni di una giudice della Corte Internazionale di Giustizia che dichiari un obbligo religioso di favorire una parte in un procedimento contenzioso. Su questo sfondo, la sua conclusione—isolata e in opposizione a quasi tutti i suoi colleghi—appare meno il prodotto di un’applicazione di principio della legge ai fatti che la manifestazione di una riluttanza ad affrontare le complessità del caso. Dal punto di vista dell’etica giudiziaria internazionale, come riflesso nei Principi di Bangalore sulla condotta giudiziaria, il dovere di imparzialità richiede non solo l’assenza di pregiudizi effettivi, ma anche l’evitare un linguaggio o un ragionamento che possano ragionevolmente essere percepiti come banalizzanti le pretese di una delle parti (31). Poiché oggi Israele detiene un potere militare, politico e diplomatico schiacciante ed è riconosciuto come Stato sovrano, è difficile immaginare circostanze in cui cederebbe volontariamente un territorio che ha conquistato—specialmente a una popolazione che cerca di dislocare e che non considera titolare di una rivendicazione territoriale indipendente, ma residente su una terra che Israele ritiene intrinsecamente ed esclusivamente propria. Né vi è alcuna chiara indicazione che, se le posizioni fossero state invertite, i palestinesi avrebbero agito diversamente. Lo squilibrio strutturale di potere, radicato da decenni, rende improbabile un compromesso territoriale in assenza di una volontà politica eccezionale. Inoltre, alla luce degli sviluppi recenti, in particolare il discorso dell’ex presidente degli Stati Uniti Trump davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2025 (32), in cui ha apertamente messo in discussione l’efficacia e la legittimità del sistema delle Nazioni Unite, e le parallele dichiarazioni di leader israeliani che minano l’autorità della stessa istituzione (33), appare evidente che sia gli Stati Uniti che Israele si stiano muovendo verso una strategia deliberata di delegittimazione del quadro internazionale stesso. Ciò è particolarmente significativo se si considera che l’esistenza stessa di Israele come Stato sovrano si è fondata ed è stata legittimata sul consenso internazionale forgiato sotto l’egida delle Nazioni Unite. Se questo processo di delegittimazione dovesse proseguire, Israele potrebbe cercare di collocarsi come del tutto indipendente da quel quadro originario, recidendo così la propria dipendenza dal consenso internazionale fondante che un tempo ne conferiva la legittimità. Una simile traiettoria suggerisce un corso d’azione da parte di entrambi gli Stati, perseguito attraverso interessi convergenti ma anche indipendenti, che si fonda su tattiche opportunistiche in contrasto con le norme consolidate dell’ordine internazionale, presentandosi al contempo sotto la veste di rettitudine morale o politica. Solo le voci più coraggiose e lungimiranti—da entrambe le parti, ma soprattutto all’interno della società israeliana, dato il suo ruolo dominante—possono mantenere viva la speranza che pace, riconciliazione e coesistenza possano un giorno avere una possibilità reale. In questo senso, concordo con la conclusione della giudice Sebutinde secondo cui la controversia riflette il fallimento dei processi politici. Tuttavia, con pari rispetto, ritengo che il suo ragionamento sia viziato, parziale e mal posto, poiché ignora le asimmetrie storiche, le carenze del processo di spartizione e la persistente negazione dell’autodeterminazione palestinese, tutti elementi essenziali per una corretta valutazione giuridica e morale della situazione.

BIBLIOGRAFIA:

1)        Dissenting opinion of Judge Sebutinde

https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240126-ord-01-02-en.pdf

2)        APPLICATION OF THE CONVENTION ON THE PREVENTION AND PUNISHMENT OF THE CRIME OF GENOCIDE IN THE GAZA STRIP (SOUTH AFRICA v. ISRAEL) REQUEST FOR THE INDICATION OF PROVISIONAL MEASURES ORDER OF 26 JANUARY 2024
https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20240126-ord-01-00-en.pdf

3)        UN General Assembly, Resolution 181 (II), Future Government of Palestine, 29 November 1947, UN Doc. A/RES/181(II)
https://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/A%20RES%20181%20(II).pdf

4)        UN GAOR, 2nd Sess., Ad Hoc Committee on the Palestinian Question, Official Records, UN Doc. A/AC.14/SR.21 (1947).

5)        United Nations, The Origins and Evolution of the Palestine Problem, 1917–1988 (Part II, UN publication, 1990)

6)        Benny Morris, 1948: A History of the First Arab-Israeli War (Yale University Press, 2008)

7)        UN General Assembly, UNCCP, First Progress Report, UN Doc. A/819, 22 April 1949

8)        David Ben-Gurion, War Diary 1948–49

9)        Anita Shapira, Israel: A History (Brandeis University Press, 2012)

10)   Simha Flapan, The Birth of Israel: Myths and Realities (Pantheon Books, 1987)

11)   Rashid Khalidi, Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness (Columbia University Press, 1997)

12)   Walid Khalidi (ed.), All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948 (Institute for Palestine Studies, 1992)

13)   Ilan Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine (Oneworld, 2006)

14)   Sebutinde (1) p. 37

15)   Ibid

16)   Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Bosnia and Herzegovina v. Serbia and Montenegro), Judgment, ICJ Reports 2007, para 403

17)   Military and Paramilitary Activities in and against Nicaragua (Nicaragua v. United States of America), Merits, ICJ Reports 1986, para 96

18)   https://www.aljazeera.com/opinions/2018/7/17/an-unlikely-union-israel-and-the-european-far-right

19)   Max Blumenthal, Goliath: Life and Loathing in Greater Israel (2013)

20)   Discourse on Colonialism, Aimé Césaire, Monthly Review Press 1972, pp. 14 – 15

21)   ISRAEL BASIC LAW, ARTICLE 1
https://main.knesset.gov.il/EN/activity/documents/BasicLawsPDF/BasicLawNationState.pdf

22)   Israeli minister touts Gaza 'real estate bonanza', defying international backlash
https://www.bbc.com/news/articles/c5y59z6rznvo

23)   Trump proposes the US taking ownership of Gaza Strip
https://www.bbc.com/news/articles/clyk0r3kvxyo

24)   Sebutinde (1) p. 49

25)   Tom Segev – 1949: The First Israelis (Free Press, 1986) pp. 3–20, 95–110

26)   Walid Khalidi (ed.) – From Haven to Conquest: Readings in Zionism and the Palestine Problem until 1948 (Institute for Palestine Studies, 1971; reprint 2001)

27)   Norberto Bobbio, Il positivismo giuridico, Giappichelli (1979)

28)   Hans Kelsen — Pure Theory of Law (Max Knight translation, 2d revised & enlarged German edition, 1967), p. 279

29)   Carl Schmitt — Political Theology: Four Chapters on the Concept of Sovereignty

30)   Justice Sebutinde under fire for Israel-Gaza case remarks
https://www.monitor.co.ug/uganda/news/national/justice-sebutinde-under-fire-for-israel-gaza-case-remarks-5173288

31)   Bangalore Principles of Judicial Conduct (2002), endorsed by UN Economic and Social Council Resolution 2006/23, Principles 1–2

32)   President Trump Delivers Remarks to the United Nations General Assembly
https://www.youtube.com/live/fpD_GViQe_A?si=wvOReuhdIG_vIuba

33)   Israel vs the UN: A long history
https://www.lemonde.fr/en/international/article/2023/12/25/israel-vs-the-un-a-long-history_6374681_4.html

 
SaggiIan Elly Ssali Kiggundu