Nere illusioni

 
Pubblicato precedentemente il 23 Maggio 2018
Fotografia: Mwangi Gatheca

Fotografia: Mwangi Gatheca

Ricordo una bella tarda mattinata d’autunno nella mia infanzia quando frequentavo la scuola elementare. Il secondo o il terzo anno, non ricordo bene. In occasione di un progetto intercultura, e a seguito di una lunga spiegazione circa la bellezza del mondo vario, la maestra ha invitato la classe a dire “siamo tutti uguali” con un bel sorriso stampato in faccia. Tutti hanno ripetuto in coro il mantra “siamo tutti uguali” e poi, non ho un ricordo chiaro della successione degli eventi, ma ricordo molto bene come ad un certo punto tutti i miei allegri compagni di classe si sono voltati verso di me, unico bambino africano, nero, straniero, extracomunitario (all’epoca l’Unione Europea non esisteva come entità politica), ugandese, italo-ugandese, insomma si sono rivolti a me e hanno detto tutti in coro: “siamo tutti uguali”. Io sono rimasto in silenzio, in imbarazzo e piuttosto indeciso sul da farsi. “Facile per voi dirlo!” pensavo. O ancora “E mò che dico?”

Non fraintendetemi, è stata una bella iniziativa. A metà anni Novanta mi ricordo un bambino italo-cubano e due fratelli cinesi. Tutti siamo stati trattati come bambini tali e quali agli altri, futuri italiani di domani. I bambini di allora si dividevano in quelli sfegatati del calcio (erano gli anni d’oro di Totti, Inzaghi, Battistuta, Maldini, Baggio), tra le bambine c’erano le belle, “le cocche della maestra”, le fan di Sailor Moon, e poi ovviamente il classico compagno di classe che puzza, quello che fa le ricerche sulla compianta Enciclopedia Encarta, insomma tanti ricordi.

Nella visione idilliaca adulta, i bambini sono piccoli, teneri, coccolosi e soprattutto buoni, invece per quest’ultima parte spesso è il contrario. Tra i bambini ci può essere molta crudeltà. Puoi essere preso di mira per quello che sei o per quello che non sei. E se i bambini sono decisamente smaliziati, possono coalizzarsi e tanti possono andare contro uno. Io diciamo che ero nella fascia di quelli buoni, più precisamente nella sottocategoria di quelli che non vanno bene a scuola. Non ero nell’Olimpo dei fighi. Anzi. Ero prossimo alla categoria degli sfigati, di quelli indecisi, di quelli che nutrono piaceri diversi dal pallone e circoscritti a mondi fatati creati dalla ormai sepolta Play Station. Ero un bambino come un altro, e l’essere quello che sono non è stato un problema per me né tantomeno per gli altri ma, diciamo, che c’è sempre stato un problema di terminologia. O forse sarebbe meglio dire ingenua ignoranza.

E questo ci riporta in quel mattino d’autunno. “Bianchi e neri, non importa, siamo tutti uguali”.

Lo confesso. Devo liberarmi di questo sassolino dalla scarpa. Devo sfogarmi. Devo ribellarmi. Anzi, credo dovremmo ribellarci tutti.

Capisco che per secoli gli italiani che si sono spalmati sulla spiaggia prendendo il sole, si sono scuriti tanto che per descriversi esageravano chiamandosi “neri”, ma il fatto nemmeno tanto vero che in Africa c’è il sole e che quindi sia naturale trovare uomini e donne nere (sottintendendo che prima erano un po’ più chiari e che siano diventati in seguito “neri”) è una cosa un po’ ingenua perché l’essere umano è come me, non solo come te. Anche gli occhi a mandorla. Non devi per forza essere cinese o di etnia Han per averli (molte individui in Africa hanno questi occhi). Soprattutto .. perché nero? Il catrame è nero, la lavagna in ardesia è nera, lo schermo del cellulare quando è spento è nero, non io. Avrei capito marrone, ma, diamine, mettetevi nei miei panni, quale correlazione esiste tra la mia pelle marroncina e il nero?

E la cosa più assurda è farsi definire o definirsi “uomini e donne di colore” (a volte usato ridicolosamente come un eufemismo), la domanda qui sorge spontanea .. ma di quale colore? E poi, scusatemi, ma dal mio punto di vista gli altri sono di colore. Ma anche ragionamenti derivanti dal .. “ma perché chiamarmi di colore, è un’ipocrisia, io sono nero!” Il ragionamento più idiota, più degradante, più insensato che abbia mai sentito. Anche se nulla batterà mai “Sono nero e fiero di esserlo”. Ma avete mai sentito un cinese dire “Io sono giallo e sono fiero di esserlo”? Ma, ancora più importante, perché dire a che colore si accosta di più la mia pelle, va a seguire il mio ruolo in società alla stregua di una qualifica professionale!? Già, e poi perché questo trattamento sempre riservato agli africani, i discendenti e mai a nessun'altro?

Perché si dicono tutte queste castronerie? La cultura di massa americana.

Lasciatemi dire questo. Non siamo tutti “afroamericani”, certamente non quella brodaglia che esce fuori dai media commerciali americani. Nulla di più distante dall'esperienza storica e attuale degli afroamericani. Loro nemmeno erano chiamati così (e sono comunque americani, perché quelli di origine britannica non li chiamiamo Britannico americano?), erano violentati, picchiati, linciati, mutilati, trucidati, impiccati e uccisi perché erano “negri”, oggetti di cui disporre liberamente. Solo per rispetto verso le morti tragiche che hanno accumunato tutta la diaspora africana (localizzata nell’Africa Occidentale) nelle Americhe che questa parola non si dovrebbe usare (e non mi tirate fuori il latino). Oggi alcuni rappers dicono di essersi “riappropriati” del termine “rendendolo” proprio. Come questo passaggio di proprietà sia stato anche solo possibile è avvenuto a mia insaputa e li ritengo personalmente degli idioti. La loro storia tuttavia non è la storia della “nazione nera”, perché i “neri” sono la vera invenzione. Come anche l’idea di una nazione che si fonda su una “razza”. Se visitaste il continente africano da Nord a Sud, da Est ed Ovest .. vedreste che i “neri” non esistono, esistono i popoli e hanno caratteristiche fisiche, culturali e tradizionali molto ma molto diverse.

Però non parliamo mai degli africani. Non ci interessano. D’altronde perché dovremmo interessarci di persone cui manderemo i nostri figli ad imparare la “povertà”? Già, perché gli africani sono perennemente poveri, in guerre “tribali” e gli afroamericani sono un po’ come dei fratelli maggiori. Quelli che sono riusciti, quelli più carini o, come ho sentito da qualche ragazzo di origini africane “coloro che hanno elevato la cultura nera”. E così noi giovani italiani, noi nati o cresciuti in questo Bel Paese e che abbiamo le origini in qualche paese africano, diventiamo subito “nero Italiano”. Perché viviamo nel XXI secolo ed è quindi naturale che l’Italia come ogni società occidentale che si rispetti abbia i suoi “neri”, i suoi cittadini 2.0, i simboli del progresso sociale segno del “meticciato” che avanza e del “multiculturalismo” che dilaga. Ma dov’è il problema? Il problema è che puoi sempre essere nero americano, nero tedesco, nero parigino, nero Inglese, nero Irlandese ma mai dire .. da quale nazione africana la tua famiglia abbia origine.

Io non capisco questo enorme senso di ingratitudine. Questa castrazione. Questa noncuranza del lascito di una generazione. Dei nostri genitori, e di quelli che sono venuti prima di loro. Posso capire il disprezzo del mondo, perché si rigetta sempre ciò che non si capisce, ma questo disprezzo non accomuna solo il mondo, anche gli africani stessi perché se il mondo pensa in un certo modo i popoli africani hanno dato il loro valido contributo. Tutti conoscono la storia e la conseguenza della colonizzazione ma è stata estremamente disomogenea e il territorio estremamente vasto, e il fenomeno ha tirato fuori molti voltagabbana tra gli stessi popoli in Africa. Ci si dovrebbe chiedere come sia stato possibile che popolazioni tanto diverse e tanto distanti abbiano subìto lo stesso declino, ci si dovrebbe chiedere com’era il continente africano prima dell’avvento di alcuni europei, quelli avidi. E, credetemi, molte società non erano affatto liberali, come d’altronde l’Europa, la Cina e l’India di allora. Ma se di questi posti sappiamo qualcosa, la storia dei popoli d’Africa (e per carità, evitate qualsiasi cosa scritta dagli africani francofoni) hanno sempre il ruolo di vittime, indiscriminatamente, anche quelli che hanno collaborato con i “poteri forti”. Pensare che gli africani abbiano sofferto più di altri, non solo è assurdo, ma è il mito che ci viene continuamente propinato. Ma se sei vittima la colpa è sempre di qualcun’altro, mai tua. E questo frena ogni riconcilliazione col passato, ogni riparazione degli errori dei padri e delle madri, ogni redenzione, ogni speranza, ogni futuro.

E se nell’esperienza occidentale il traffico atlantico di esseri umani è stato ed è la chiave di lettura popolare con la quale si interpreta e si svolge (ancora oggi) l’interazione con una parte degli africani, a tal punto da essere usata per interpretare e regolare i rapporti con tutta l’immensa varietà umana nel continente; gli africani in Africa oggi annaspano ancora con le conseguenze negative della colonizzazione. Possiamo mettere in relazione i due fenomeni ma non sono assolutamente interscambiabili. Non parliamo della stessa cosa. Non si possono mettere le questioni della diaspora e quelle degli africani nel continente sullo stesso piano semplicemente perché sono situazioni sociali, economiche e storiche molto diverse. Non siamo tutti uguali e dire “nero” significa rinchiudere o richiudersi in uno stupido stereotipo, in una semplificazione fatta da altri, che ingabbia un miliardo di persone. Credo sia decisamente miope e limitante.

Limitante perché non rende liberi. Da quando in qua il vestiario di un rapper è diventata la divisa ufficiale per ogni persona con origini africane? Perché una persona di origine africana non può sognare qualcosa di diverso rispetto a quello che questo mondo suggestionato dall’esperienza anglosassone ha dettato per lui a causa della sua melanina? Perché un africano deve esser ritenuto come un senza-cultura, un senza-storia, un soggetto che per essere considerato tale, nella sua irripetibile individualità, deve per forza integrarsi in qualunque società diversa dalla sua?

Io, cittadino italiano di origine ugandese, sostengo che il “nero” non esiste, e che il primo passo verso la libertà è liberarsi di questo stereotipo che molti africani e non solo hanno fatto proprio. Una suggestione collettiva che offusca ogni sorta di ragionamento e giudizio, di cui è molto facile liberarsi: io non sono nero, tu non sei nero. La mia pellaccia è quanto di più insignificante ci sia al mondo. La pelle non è la mia cultura e non rappresenta le mie possibilità, quello che si vede fuori non eguaglia quello che ho dentro. E questo pensiero non può valere sempre per i “neri”, come se la discriminazione riguardasse sempre i neri e sempre nella dicotomia “bianchi e neri”. Se siete persone che hanno viaggiato tanto saprete anche che discriminare, discernere e normale e capita a chiunque (senza nemmeno viaggiare). Anche a costo di risultare poco carini, maleducati. Si sbaglia, eccome. L’essere umano è di una varietà incredibile, è vero, uno può essere più scuro, più chiaro, mi trovate d’accordo, ma solo per gli africani la pelle è la carta di identità. E alcuni di loro, magari ben in vista, che insistono sulla pelle molto più forse dei loro presunti “denigratori”. Purtroppo il vero problema è che nessuno stato africano ha mai difeso la dignità dei propri cittadini in maniera ferma e inequivocabile, è sempre stato un lavoro di altri.

Vuoto malamente colmato a livello mondiale dalla cultura americana dominante e di alcune scelte politiche che sono passate alla storia come nobili ma che di nobile hanno ben poco. Gli Stati Uniti non hanno ratificato molti trattati sui diritti umani, il loro sistema legale non sopporta qualsiasi fonte di diritto superiore alla loro costituzione, quindi la questione degli afroamericani impiccati, linciati e incarcerati senza giusto processo è passata come una questione “domestica”, “civile”, di “integrazione” (sì, questo termine è stato inventato allora) e ha regalato a tutto il mondo libero e a tutti i “neri” che i loro diritti fondamentali sono negoziabili in una società dove regna il mito del progresso, la sopprafazione del forte sul debole, la lotta tra le forze del bene e quelle del male, tra repubblicano e democratico, tra destra e sinistra, tra padrone e schiavo, tra bianco e nero, insomma questi africani sono diventati oggetto politico, autoghettizzandosi in una definizione elaborata da altri di ciò che sono.

Queste dinamiche non sono mai esistite dentro l'Italia semmai alcune cose sono state acquisite. L’Italia ha invaso la Cina, la Libia, la Somalia, messo a ferro e fuoco l’Etiopia, ha un passato coloniale che non inizia col Fascismo ma con lo stato liberale, un passato aggressivo, ma pur sempre fallimentare il cui unico peccato è di non esser affatto raccontato nelle scuole. Ma non è questo il punto.

Il punto di vista dell’Africa come continente e dell’africano come persona è quanto di più degradante ci sia ma rimetto la responsabilità agli africani delle generazioni passate e su cui chiamo alla responsabilità i nuovi e i curiosi.

Come mi sento anch’io chiamato.