Il diverso e il trauma

Fotografia: Nathan Dumlao

Fotografia: Nathan Dumlao

Siamo tutti diversi. Noi umani, noi mortali, noi che abbiamo il cuore che pompa il rosso sangue per ogni arteria, per ogni vena. Siamo tutti diversi, verissimo, ma è altrettanto vero che non è poi così intuitivo capirlo. Tutto ha inizio quando veniamo alla luce, un bambino ha la naturale predisposizione a cercare la madre e poi il padre. L’attaccamento è un legame solido con il quale il bambino soddisfa il suo bisogno di protezione, calore, affetto e il suo stare nel mondo. La presenza degli altri riempie uno spazio, i loro corpi definiscono uno spazio, uno spazio protetto e sicuro in cui il bambino può fare i primi passi, muoversi, sperimentare e crescere sicuro. Cosa succede se quando esci da questa sicurezza e scopri che il mondo è grande e terribile?

Molte persone che hanno famiglie straniere condividono questo senso di smarrimento. Un senso di smarrimento che varia in base al grado di vicinanza che viene attribuito dal mondo italiano. Gli stranieri dell’Europa occidentale ovviamente sono cugini. Gli stranieri della cosiddetta “Europa dell’Est” sono considerati ladri, assassini e prostitute, gli extracomunitari (oppure “immigrati”) sono tutti quelli che sono percepiti massimamente distanti per religione, comportamento e fisionomia.

Ho scritto smarrimento ma parlo di trauma. Un trauma che nasce da un insulto o semplicemente da un’osservazione, una esperienza che giunge inaspettata e critica tra quelle che normalmente una persona può prevedere o gestire.

In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia.
— "La casa in collina", Cesare Pavese

L'Italia collettivamente non è incline a parlare apertamente dei propri problemi per risolverli, figurarsi quelli proveniente da una classe di persone volutamente messa ai margini. E la letteratura a loro riguardo non solo scarseggia ma è anche difficile farla. È difficile trovare l’Italia vissuta e osservata non da chi sta in alto ma da chi sta in basso. Dal punto di vista di quelli che sono visti, estraniati o semplicemente far emergere quelli che hanno un’idea di Italia non fissa agli anni Cinquanta ma che la vivono oggi, l’Italia all’alba della seconda decade del Ventunesimo Secolo.

Se la cultura è ciò che un popolo condivide , sarebbe certamente utile se condividessimo in lingua italiana anche la storia di altri italiani e italiani, con storie e vissuti diversi, sempre in Italia. Ovviamente nella struttura vecchia e stantia del Bel Paese, che anestetizza ogni dissenso e non capisce una grammatica nuova, è tutto difficile.

È tutto difficile perché nei posti di comando dell’informazione, dell’istruzione e ampi settori della società, l’Italia è una opulenta gerontocrazia . (1) Ed è chiaro oggi che questa classe riflette i suoi valori, i suoi interessi e le sue priorità sull’intera popolazione. I loro figli e i nipoti non sono solo più poveri ma sono sfruttati e resi precari anche per l’ingiustizia contrattuale nel mercato del lavoro. (2) Per non parlare della gente che non paga. I figli degli stranieri generalmente non hanno proprietà, provengono generalmente da famiglie che non possiedono enormi redditi (3) e non tutti hanno nonni, zii e parenti con sé in modo tale da poter avere una sorta di sostegno sociale parallelo a quello statale. Non hanno generalmente vaste risorse e la loro esistenza contraddice l'idea di italiano promossa dall'Italia liberale a fine Ottocento (non riuscendoci) e dal Fascismo poi (riuscendoci pienamente), con tutte le conseguenze che questo dettaglio comporta.

Per fortuna viviamo nel Ventunesimo secolo, e se qualcuno è fortunato abbastanza da capire l’Inglese, è possibile sopperire questa mancanza con le esperienze di altri vissuti in altri paesi. Altrimenti la condanna è vivere in solitudine la diversità.

Essere diversi significa essere soli. Non è una ricchezza. Arricchisce chi? È chiaro che tu arricchisci compagni di classe e/o colleghi e sei una ricchezza. Loro scoprono una parte di mondo, ma altra prospettiva è di chi arricchisce, di chi viene integrato, adottato, misto, di chi si sentirà inglobato e non uno tra tanti, non meno importante. Questo inevitabilmente spinge chi subisce tutto questo a dover giustificare ogni volta sé stesso, chi è e favorisce la frammentarietà della propria anima. Perché sei tu quello diverso non gli altri. Gli altri sono interi, tondi, perfetti. Tu no. Sei spigoloso, sei percepito rozzo, abbozzato, imperfetto. E ti viene pure detto che devi gioire di questo? "È bello essere diversi", ti dicono. "È bello essere multiculturali", "È bello essere esotici", "Hai una marcia in più". Sono cose che, specialmente durante l’adolescenza, non fanno un gran bene. Perché vorresti darti un nome ma persino il tuo stesso nome diventa scomodo, stretto, non sembra significare nulla. Un nome che altri storpiano in continuazione, che faticano a pronunciare e ti senti errante. Di nessun luogo. Senza nome. E gli altri nel frattempo ti assalgono. Ti spingono a giustificare la tua presenza e tu ti ritrovi a desiderare una sorta di assimilazione totale o rifuggire ogni situazione che possa ricordare agli altri che sei per loro quello diverso perché, ovviamente, per te chi puoi essere? Chi sei?

Se per gli altri non ero quello che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
— Uno, nessuno e centomila, Luigi Pirandello

La giustificazione è uno scudo per proteggere chi la recita, ma è anche una rassicurazione per chi la sente: non sono diverso come ti sembra, sono come te, solo un po’ diverso.

Sono atteggiamenti umani. Forse la cosa più difficile da capire e di non convincersi di soffrire più degli altri perché se pensi di soffrire più degli altri allora sei perduto. Non solo non ti metti in ascolto per sentire e capire il dolore degli altri ma non permetti a chi ti sta intorno di capire il tuo. Vivendo il dolore privatamente è facile pensarlo, specialmente per quella generazione degli anni Settanta, Ottanta e Novanta perché i figli di immigrati nelle scuole non erano così tanti nella grande città figurarsi nei piccoli centri. La diversità rispetto al contesto era vissuta in forma privata e manifestata con frasi tipo: “sono cittadino del mondo” però queste affermazioni per quanto siano mirate a dare una solidità risultano in una certa inconsistenza.

Il mondo, quello vero, è grande.

È facile trovare trentenni e persone più grandi che ancora non sono riusciti a darsi una risposta convincente per sé su questa questione o la tacciono; oppure trovare adolescenti che vengono disorientati, che si vedono oggettivizzati, feticizzati in una narrativa che non sentono la loro, a doversi confondere con neri, migranti, immigrati, e parlare di “Africa”, "Cina", neri o Est e quindi alla fine te. Per i più. Per la maggior parte. Anche per quelli che hanno origini straniere come te, dove le loro comunità ovviamente fa comodo che ci siano in Italia persone considerate più straniere di altre. Il problema è che sfruttando i traumi e i dolori di persone fragili, a livello nazionale in Italia si è reso la pelle, la religione, la nazionalità e il vissuto delle persone oggetto di lotta politica. E questo è tanto vero per gli africani e i loro discendenti. Voglio essere chiaro. Non è tanto la pelle ma quello che ci è stato costruito nel corso dell’ultimo secolo pur di avvantaggiarsi sugli africani tutti. Viene oggettivizzato e utilizzato anche il vissuto delle persone che rappresenta per le stesse vittime uno specchietto delle allodole che alcuni cinici useranno per parlare in maniera vuota di “discriminazione”, “razzismo” e “uguaglianza”, per dirti chi devi votare, chi o cosa odiare ma mai chi potresti aspirare a diventare per te stesso e la comunità perché, inutile dirlo, il discorso si pone sempre come se tu non ne facessi parte. Come se tu dovessi sempre "integrarti".

Il trauma di sentirsi diversi e di essere estraniati dagli altri non può essere considerato un “danno fortuito”. Questo gli adottati lo sanno bene visto che continuamente sentono ripetersi cose come “devi sentirti fortunato che ti hanno adottato”, “che bel gesto hanno fatto i tuoi genitori”, come se non conoscere i tuoi genitori e venire prelevato da una terra per essere trapiantato in un’altra non fosse di per sé lacerante. È interessante come quando una mia amica di origine cinese è ritornata in Cina dopo molto tempo sia stata sopraffatta da un malessere che un po’ l'ha destabilizzata: “i cinesi sono tanti, tantissimi e sono tutti uguale a me”. Io stesso tornando in Uganda dodici anni fa, dopo essere atterrato, ho trovato destabilizzante stare tra persone uguali a me. Molti miei amici italiani hanno provato un senso destabilizzante nel stare per la prima volta circondati da africani, cinesi o arabi. Un mio amico mi ha detto che si è sentito davvero molto male e una mia amica è stata in piccole cittadine del Senegal dove i bambini scappavano perché non avevano mai visto prima una donna caucasica o, quelli più coraggiosi, tentavano di strapparle via i capelli. L’esperienza in sé può apparire divertente, tutto il mondo è paese, ma quel senso di malessere e di estraniamento era lì e si è sentita male. Noi esseri umani siamo tribali. Il nostro subconscio continuamente ci invia segnali su chi considerare come uno di "noi" e chi mettere nella categoria "altro". Se sei grande, lo puoi elaborare. Se non sei grande e sei piccolo, normalizzi questo malessere a tal punto che quando ti ritrovi in un ambiente che per la sua omogeneità dovrebbe rassicurarti ti crea l’effetto opposto. Ma cosa succede se ci convivi non essendo conscio di percepire intimamente di essere diverso dagli altri?

Perchè dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini?
— "Le ultime lettere di Jacopo Ortis", Ugo Foscolo

Parlare del proprio dolore a volte può essere nebuloso ed è difficile poi capire cosa sia cambiato nella propria vita grazie a questo racconto o cosa in effetti uno abbia imparato da esso. Fare un continuo resoconto del proprio vissuto, il tanto richiesto e inopportuno resoconto delle proprie drammatiche esperienze non aiuta la propria guarigione. E a volte si è divisi tra il pensare che magari si è meritato tutto questo: la noncuranza che ci è stata rivolta, l’oltraggio subìto, o se noi sbagliamo a porci di fronte a tutto questo come vittime. Potremmo essere tentati di pensare che i nostri traumi possano essere superati alla maniera dell’arte giapponese del kintsugi. Di fronte ad oggetti di ceramica rotti, i giapponesi usano dell’oro o dell’argento liquido per rimettere assieme i pezzi, e questo può indurci a pensare che valga lo stesso per i nostri traumi. Ci hanno fatto a pezzi e speriamo di poter raccogliere i cocci, metterli insieme ed essere di nuovo interi, diversi, tutto di un pezzo. Tuttavia, questo desiderio di dare significato al proprio trauma può essere tanto dannoso quanto il trauma stesso. Non ci vuole poi tanto a convincersi inconsciamente che i nostri traumi passati rappresentino un dovere nei confronti di altri, per servirli, per guarirli. Come se ripercorrere ogni stadio delle proprie dolorose esperienze possa aiutare gli altri. Un processo nel quale ci si vede indossare la propria sofferenza anche con un certo orgoglio e fierezza. È molto più facile cercare di dare uno scopo al nostro dolore come se potesse essere “utile” ad altre persone proprio perché ci ferisce di più accettare che il trauma che abbiamo vissuto è sbagliato e che questo dolore che ci è stato inflitto non ce lo meritiamo. È di conforto pensare che il dolore abbia uno scopo e poi scaricare sulle nostre stesse spalle il peso dello scovare questo scopo, di trovare un senso al nostro smarrimento, alla nostra sofferenza. Il nostro dolore ci fa ricoprire il duplice ruolo di “lezione” e “insegnante”. Spesso tuttavia non c’è nessuna lezione. Non tutto è utile, in particolare le esperienze negative. Pensare che vi sia un “buon danno” toglie la responsabilità a coloro che ci hanno fatto male di rispondere delle loro azioni scaricandola per intero su di noi. Spesso quando affrontiamo i nostri demoni speriamo di uscirne interi come ceramiche kintsugi: utili e integri. Preghiamo che il nostro dolore possa servire a porre fine a quello di un altro ma la ricerca di un significato nel dolore conduce ad altro dolore. A volte essere utile non è ciò di cui hai bisogno per guarire.

BIBLIOGRAFIA
Parzialmente tradotto e rielaborato da un articolo della rivista online Gal Dem
BoJack Horseman taught me that trauma doesn’t have to have a purpose, di Kofo Ajala
https://gal-dem.com/bojack-horseman-taught-me-that-trauma-doesnt-have-to-have-a-purpose/

1. BANCA D’ITALIA SUPPLEMENTI AL BOLLETTINO STATISTICO, PAGINA 9, 13 E 14
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2014/suppl_64_15.pdf

2. THE RECENT REFORM OF THE LABOUR MARKET IN ITALY: A REVIEW, EU COMMISSION, PAGINA 36, 5. CONCLUSION
https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/economy-finance/dp072_en.pdf

3. LE FAMIGLIE CON STRANIERI: INDICATORI DI DISAGIO ECONOMICO
https://www.istat.it/it/files//2011/03/testointegrale20110228-1.pdf