O sulle stupidaggini che dicono gli africani, panafricanisti, sovranisti, populisti, italiani e altre creature leggendarie.

Fotografia: Asael Pena

Fotografia: Asael Pena

Ci sono tantissime cose che non vanno quando alcuni sedicenti “africani” parlano di “Africa”. Quando si parla di “Africa” i fatti e le domande non contano più, anzi, si evitano come la peste. È più comodo fondarsi su quello che si è sempre detto. Se di altri popoli sulla Terra sappiamo la storia, dell’Africa sembra basti una pubblicità di Save the Children o la classica ragazza o ragazzo che fa qualche missione o va ad abbracciare qualche dozzina di bambini locali. Le nostre conoscenze si limitano purtroppo a queste menzogne e quello che presuppongono questi luoghi comuni: caricature tardo-risorgimentali, fasciste e pietiste. Ciò nonostante c’è un altro genere di spiegazione del continente africano: più sofisticato se vogliamo, più subdolo, più populista che riconduce tutto alla lotta contro l’imperialismo europeo, la mischia e la confonde con la lotta per i diritti civili americano e non ultimo parla di sovranismo.

Cerchiamo di capirci qualcosa.

Molti di questi “africani” usano termini quali “sovranismo” o un ideale “ritorno a casa” a Mamma Africa o di tutti i giovani che vengono qui illegalmente per ricollocarsi nel dibattito pubblico in Italia o in Europa. Io non sono un “africologo”, semplicemente riconosco la complessità di un continente (un continente, sì) vastissimo le cui dinamiche semplicemente non coincidono con qualsiasi “Africa” con cui questa gente si riempie la bocca. Peraltro l’Africa di cui questa gente tanto parla non è mai nel complesso di tutti i paesi (e badate, non è come parlare dell’Europa, lì gli stati sono 54, qui sono 28 meno uno), ma sempre il loro paese. Solo e soltanto il loro dannato paese. E si da il caso che siano sempre persone originari dai paesi africani francofoni.

Purtroppo tutta la letteratura sull’Africa sembra ruoti intorno a questi paesi che hanno mantenuto un rapporto patologico con la Francia e la Francia con loro. Un rapporto che sa di amore e di odio.

Per quanto lamentino l’invasione e l’esperienza coloniale francese, molti curiosi di storia africana, specialmente in Europa, sottostimano il fascino che i francesi hanno esercitato in quei paesi specialmente tra le classi dominanti, perché sono le classi dominanti che hanno adottato e usato la lingua francese per distanziarsi dal volgo sciocco e ignorante, dalle proprie tradizioni e dalla propria storia. Se andaste a leggere le notizie dei paesi africani francofoni sono un continuo “la Francia dovrebbe ..” , “la Francia ci deve aiutare a ..” , “i Francesi hanno detto che ..”, tutto ruota dannatamente intorno alla Francia e dubito che i francesi amino questa posizione. La lingua francese poi è un’altra questione interessante. Prendete la Costa d’Avorio cui governo rifiuta di riconoscere o accettare qualsiasi traduzione dal francese del suo nome ufficiale, ossia Côte d’Ivoire. Nei paesi africani francofoni, le lingue locali sono altamente trascurate, il francese assolutamente favorito. E non c’è da sorprendersi se Léopold Sédar Senghor, il primo presidente del Senegal indipendente, è stato ideatore dell’ Organisation internationale de la Francophonie, cioé di quella organizzazione internazionale che promuove la lingua francese nel mondo. Due senegalesi sono fondatori di questa organizzazione, Senghor e Abdou Diouf. Il colonialismo francese può essere visto come un atto di aggressione, tesa all’assimilazione che concepiva l’umanità dei sottoposti nella misura in cui loro si avvicinavano ai loro usi e costumi; ma è pur vero che le classi dominanti di questi paesi hanno compiuto una chiara scelta, insomma non si può dire che la Francia, e in genere tutti le forze imperialiste europee, abbiano fatto quello che hanno fatto solo con la forza. Territorio sconosciuto e vasto, malattie cui non erano immuni, lingue diverse, popolazioni ostili, insomma, quello che ha favorito l’influenza europea è stato l’appoggio delle classi dominanti di cui Senghor è un fulgido esempio.

Lo stesso Senghor disse in un discorso del 1957:

[..] in Africa, quando i bambini sono grandi lasciano la capanna dei loro genitori e costruiscono una capanna al fianco. Credetemi, non vogliamo lasciare la casa francese. Siamo cresciuti in essa. Noi vogliamo semplicemente costruire le nostre capanne.

Senghor non ha mai scritto nulla per le masse in Wolof o in una delle 33 lingue del Senegal. E secondo le statistiche della stessa Francophonie (abbastanza vecchio a dire il vero, 2005), soltanto il 20% degli uomini e l’1%–2% di donne parla francese.

La lingua principale (compresa dall’80% delle persone) è appunto il Wolof che tuttavia non è la lingua dell’amministrazione. Perché usare una lingua che i più non padroneggiano e che non articola propriamente lo spirito di popolo (il volksgeist tanto caro ai tedeschi)? Come ci può essere progresso se manca il mezzo per poterlo pensare secondo quei modi propri di qualsiasi popolo?

Non pensate che questo atteggiamento sia comune a tutti gli stati africani. Quelli non francofoni non hanno una tale sudditanza ma nemmeno tra i francofoni, basta guardare l’Algeria che ha combattuto ferocemente il dominio francese.

I paesi africani francofoni vogliono essere francesi. Questa è la verità.

Ed è un loro problema. Un problema culturale. Motivo per cui non trovo molto oggettivo tutta la letteratura storica in lingua francese sull’ Africa perché la fanno sempre e solo coincidere con quella parte che ha avuto e ha interesse a mantenere rapporti con la Francia. Parlano di “africani” ma parlano dei loro cittadini nei paesi d’origine e dei problemi in quei paesi e, ripeto, non rappresentano minimamente tutta l’Africa.

Questi signori parlano di “sovranità”. Ho già detto che la usano per fini che hanno poco a che vedere con l’Africa o i loro paesi d’origine, ma che invece hanno molto a che fare con il loro ricollocamento interno al dibattito pubblico italiano ed europeo; ma ammettiamo che abbiano a cuore la sovranità di questi paesi e che incolpino la Francia per lo stato di cose nei loro paesi d’origine. Quello di cui fanno menzione è il franco CFA che originariamente stava per Colonies Francaises d’Afrique (Colonie Francesi d’Africa). Dicitura che è cambiata da quando quei stati africani sono diventati indipendenti, ora l’acronimo sta per Communauté française d’Afrique (Comunità Francese d’Africa).

Il franco CFA è la moneta ufficiale di due comunità economiche, la Commaunauté Economique et Monétaire de l’Afrique Centrale (CEMAC, Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale) e l’Union Économique et Monétaire Ouest Africaine (UEMOA, Unione Economica Monetaria dell’Africa occidentale).

Il CEMAC consiste nei seguenti stati: Chad, Cameroon, Repubblica dell’Africa Centrale, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale e Gabon. Il UEMOA comprende il Benin, Burkina Faso, Cote d’Ivoire, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo.

Le due comunità economiche hanno una loro versione del franco CFA e una banca centrale ciascuno che emette moneta. La cosa un po’ equivoca è che le due monete non sono nemmeno interscambiabili sebbene le due banche centrali dicano che stanno lavorando per arrivare ad una completa integrazione dei sistemi di pagamento così le due versioni di franco CFA possono circolare liberamente in tutti i paesi creando una moneta unica.

Entrambe le versioni del franco CFA sono fortemente ancorate all’euro. Quando il franco CFA è stato creato, è stato ancorato al franco francese: 50 franchi CFA = 1 franco francese. Fu svalutato nel 1994 e poi rimase a 100 a 1 finché la Francia non adottò l’euro nel 1999. A quel punto, il franco francese fu convertito in euro a 6,55957 a 1. Il tasso di cambio del franco CFA divenne quindi 655,957 a 1 euro, cui rimane ancorato ancora oggi.

Cosa significa? Sebbene le due versioni del franco CFA non siano ancora integrate, entrambe valgono esattamente lo stesso in termini di euro, e il duro ancoraggio all’euro significa che il loro valore esterno è identico poiché i loro tassi di cambio fluttuano su e giù con la valuta europea. In altre parole, i 14 paesi nell’unione monetaria del franco CFA usano di fatto la stessa valuta e quella valuta può essere considerata una versione dell’euro.

Per garantire che il franco CFA non sia costretto a svalutare con attacchi speculativi, la sua convertibilità all’euro al tasso di cambio fisso è garantita dal governo francese e sostenuta dalle riserve in euro. Dal 2010, in base all’accordo con il governo francese, il 50% di tali riserve è stato detenuto dal Ministero delle Finanze francese. Tenendo l’ancoraggio all’euro, le due banche centrali del franco CFA sono costrette a seguire la politica monetaria della Banca Centrale Europea, che fissa in modo efficace i tassi d’interesse per la zona del franco CFA.

Alcuni ritengono che l’ancoraggio all’euro sia un’arma a doppio taglio. Quello che non viene detto è che da un lato ha aiutato i paesi della zona CFA a sopravvivere alle recenti cadute nel prezzo del petrolio (vedi Nigeria) e delle materie prime senza il crollo della valuta, i picchi dell’inflazione (lo Zimbabwe ha ben nove valute nell’economia visto che quella nazionale è stata abbandonanta a causa dell’iperinflazione) e il disagio fiscale. D’altra parte, è plausibile che la forza dell’euro può aver scoraggiato le esportazioni e incoraggiato le importazioni a vantaggio delle economie della zona euro, in particolare la Francia, a spese dei paesi della zona CFA ma è pur vero che parliamo di paesi che hanno fatto di uno sport nazionale importare ogni cosa dai francesi e che la classe media vive di tali beni e che le classi meno abbienti anelano disperatamente ad avere qualcosa di “francese”.

Basta guardare dove vanno gli studenti di tutta l’Africa. Quelli originari dai paesi francofoni, la stragrande maggioranza va a studiare in Francia, mentre tutti gli africani fluenti in Arabo, Inglese e nelle lingue locali vanno in Cina. La Cina ha infatti sorpassato Regno Unito e Stati Uniti come meta dei giovani africani per lo studio universitario. Per non parlare degli ingegneri indiani che vengono ad insegnare nelle scuole in Africa orientale.

Questo credo sia un dato significativo. Torniamo all’economia, però.

L’origine del franco CFA nelle relazioni coloniali significa che il commercio con la Francia, e più recentemente con l’Eurozona, tende a dominare nella zona CFA. Il commercio tra gli stati membri è stato ostacolato da problemi strutturali quali la mancanza di infrastrutture, ponti, autostrade, ferrovie veloci, comunicazioni postali capillari, inclusa la suddetta mancanza di integrazione tra le due versioni della valuta.

Tuttavia, negli ultimi anni, il commercio si è diversificato, con la Cina e gli Stati Uniti che diventano partner commerciali sempre più importanti. Ciò ha rafforzato le richieste di separazione del franco CFA dal controllo della Banca di Francia, e persino di levare l’ancoraggio all’euro.

Un cambio del genere potrebbe anche essere auspicabile, e ignorando i forti interessi all’interno degli stati africani francofoni affinché la situazione rimanga così com’è, chi ha detto che i governanti di questi paesi saprebbero gestire la moneta se non riescono nemmeno a gestire bene i benefici che derivano dal franco CFA?

E poi la gente di questi paesi non migra per la moneta. Troppo facile pensarlo. Innanzitutto, queste persone hanno generalmente come madre una donna ingravidata da un uomo e successivamente abbandonata. E se i coniugi hanno un rapporto stabile, i figli generati sono decisamente troppi. Non dico che bisogna arrivare come in Europa ma l’Africa (non solo quella francofona) rappresenta l’estremo opposto. Una via di mezzo non sarebbe male. Poi, insomma, questa gente fugge dal classismo, dalla bassa produttività, dalla scarsità di infrastrutture e di educazione perché la popolazione è molto giovane (cresciuti senza genitori alcuni, senza lavoro tanti) e trae beneficio dal sistema solo e soltanto chi i soldi li ha.

Anche questo però è una lettura parzialmente vera perché comunque la ricchezza e la classe media si sta espandendo. Come tutti i paesi al mondo anche questi paesi hanno problemi, ma è sbagliato pensare che nulla sia stato fatto e bisogna riconoscere che negli ultimi dieci anni, molto sia cambiato in meglio.

Insomma, riassumendo, i paesi della zona CFA godono di bassa inflazione, bassi tassi di interesse rispetto a quelli di altre parti dell’Africa e forti legami commerciali con la Francia. Le imprese beneficiano della stabilità del franco CFA e della credibilità del suo tasso di cambio all’euro. L’incerta relazione futura tra il franco CFA e l’Eurozona può destare preoccupazione in alcuni osservatori. Tuttavia i governi della zona franco CFA stanno lavorando per migliorare l’infrastruttura economica della zona per sviluppare legami commerciali più forti tra loro e con i partner commerciali di tutto il mondo.

Parliamo di paesi che non hanno esperienza di stato-nazione e che per storia culturale e per estensione dei territori (al momento della nascita di questi stati con l’indipendenza), non avevano strutture preesistenti (a parte quelle coloniali) capaci di supportare lo sviluppo via via sempre più crescente dei commerci richiesti dall’incontro con altri mercati e dalla domanda interna. E’ chiaro che ci è voluto un periodo di assestamento anche politico per inquadrare le priorità economiche e strutturali ma il futuro è roseo, e di certo non dipinto in tinte fosche.

Parlare poi di Stati Uniti d’Africa è sbagliato perché confonde il panafricanismo e la realtà storica. Il panafricanismo nasce agli inizi del Novecento come reazione principalmente della diaspora africana ai sopprusi delle leggi razziste in Francia, Regno Unito, Stati Uniti e nelle colonie. I panafricanisti vedevano l’Africa come una sorta di Israele ancestrale di tutti i discedenti dal continente. Il problema però è triplice. Parliamo di persone che sono nate e cresciute fuori dall’Africa e che non conoscono la realtà dentro il continente e le esigenze particolare dei popoli; pretendono di costruirsi un’identità fondandola sull’opposizione come solo fattore comune e soprattutto la “pelle”. E, ripeto, gli africani non sono solo neri, ma questo diciamo sono i tre principi su cui si fonda il movimento. Il problema è che i popoli africani sono naturalmente diversi l’un l’altro. E’ possibile unirsi contro un comune nemico per la continua e insensata semplificazione che compie, ma di fatto, i popoli africani hanno abitudini, culture, concenzioni della vita molto ma molto diversi tra loro. Parlare di unità come se “essere neri” sia la condizione necessaria e sufficiente è molto ma molto stupido. E perché mai popoli che hanno avuto storicamente esperienza politica molto localizzata dovrebbero imbarcarsi sulla stessa barca per creare un organo politico di un’estensione che non ha eguali nella storia dell’umanità? E perché mai 54 stati alcuni governati bene e altri governati malissimo, dovrebbero associarsi, se non hanno ponti, autostrade, lingua comune, treni ad alta velocità, economie non troppo dissimili, un sistema finanziario abbastanza sofisticato, un buon livello di occupazione, scarsa corruzione e molto altro? Perché il Rwanda dovrebbe condividere una moneta con lo Zimbabwe che ha una inflazione rampante e ben nove valute al suo interno visto che quella nazionale è caduta?

Un’unione si deve fondare su una comune e originale condivisione, e non può fondarsi solo sulla sofferenza.

Questa storia degli Stati Uniti d’Africa è una stupidaggine. Peraltro sul continente africano ci sono delle regioni di libero scambio tra Nord, Sud, Est e Ovest (quest’ultimo lo abbiamo visto sopra).

Tutti i discorsi di questi presunti “sovranisti” semplicemente non sono concreti, molto retorici e che non affrontano mai concretamente le questioni almeno abbastanza da mostrare il lato problematico. Non dico di essere stato esauriente ma spero di aver dato qualche spunto di riflessione che possa aiutare chiunque leggerà, ad approfondire la questione, e di approcciarsi al continente africano con più onestà di giudizio.